Posted: 12 Ott 2004 - 20:40 Post subject: Post subject: I padri delle nostre letture
Della serie famose 1 po' de curtura......Comincio io, avrei voluto postare l'Odissea integrale in greco&italiano....ma sembrava poco fattibile....
Diciamo k qst post nascono x dare possibilità a tt d leggersi i classici sia in italiano k in lingua originale senza andarsi a comprare i libri in libreria (dando così i soldi a case editrici k smezzano i volumi dei preludi).
Comincio cn parte del corpus catulliano.......ma prima 1 po' d storia:
Vita.
Biografia incerta. Scarse e incerte sono le notizie su C., di cui non ci è giunta alcuna biografia antica: i suoi carmi restano la fonte principale per la conoscenza della sua vita, se non proprio per le indicazioni più strettamente biografiche e cronologiche (di cui praticamente sono privi), almeno per ricostruirne e comprenderne, in generale, personalità e stati d'animo.
La formazione e l'ingresso nel bel mondo romano. C. proveniva - come altri neoteroi - dalla Gallia Cisalpina (ovvero, dall'Italia settentrionale) e apparteneva ad una famiglia agiata: suo padre ospitò più di una volta Cesare nella loro villa a Sirmione, sulle rive del Lago di Garda (come c'informa Svetonio). Trasferitosi a Roma (intorno al 60) per gli studi, secondo la consuetudine dei giovani di famiglie benestanti, C. trovò il luogo adatto dove sviluppare le sue doti di scrittore: trovò, infatti, una Roma nel pieno dei processi di trasformazione (la vecchia repubblica stava vivendo il suo tramonto), accompagnati da un generale disfacimento dei costumi e da un crescente individualismo che caratterizzava le lotte politiche, ma anche le vicende artistico-letterarie. Entrò a far parte dei "neóteroi" o "poetae novi" ed entrò in contatto anche con personaggi di notevole prestigio, come Quinto Ortensio Ortalo, grande uomo politico e oratore, e Cornelio Nepote. Tuttavia, C. non partecipò mai attivamente alla vita politica, anche se seguì sempre con animo attento o ironico o sdegnato i casi violenti della guerra civile di quegli anni (non mancò di attaccare violentemente Cesare e i suoi favoriti, specialmente il "prefectus fabrum" Mamurra: ma Cesare seppe riconquistarlo...). Di contro, nella capitale, un giovane come lui - esuberante e desideroso di piaceri e di avventure - si lasciò prendere dal movimento, dal lusso, dalla confusione, dalla libertà di costume e di comportamento pubblico e privato, che distingueva la vita della città in quel momento. Tuttavia, la sua anima conservò sempre i segni dell'educazione seria, anzi rigorosa, ricevuta nella sua provincia natale, famosa per l'irreprensibilità morale dei suoi abitanti.
L'incontro con Lesbia-Clodia. C. è stato definito, a buon diritto, come il poeta della giovinezza e dell'amore, per il suo modo di scrivere e di pensare: il tema principale della sua poesia è Lesbia, la donna che il poeta amò con ogni parte del suo corpo e della sua anima, conosciuta nel 62, forse a Verona, più probabilmente nella stessa Roma. Il vero nome della donna era Clodia, come ci rivela Apuleio nel "De magia" (chiamata Lesbia, "la fanciulla di Lesbo", perché il poeta implicitamente la paragona a Saffo, la poetessa e la donna amorosa appunto di Lesbo), identificabile con la sorella del tribuno della plebe (58) P. Clodio Pulcro (agitatore del partito dei "populares" e alleato di Cesare, nonché mortale nemico di Cicerone), e moglie - per interesse - del proconsole per il territorio cisalpino (tra il 62 e il 61) Q. Metello Celere.
Una storia difficile. La storia fra il poeta e Lesbia è molto travagliata: Clodia era una donna elegante, raffinata, colta, ma anche libera nei suoi atteggiamenti e nel suo comportamento: nelle poesie di C. abbiamo, così, diversi accenni allo stato d'animo provato per lei, a volte di affetto e amore, a volte di ira per i tradimenti di lei: tutto, fino all'addio finale.
Il lutto familiare e la crescente delusione d'amore: il viaggio in Oriente. C. era a Roma, quando ebbe la notizia della morte del fratello nella Troade. Tornò a Verona dai suoi e vi stette per alcuni mesi, ma le notizie da Roma gli confermavano i tradimenti di Lesbia (ora legata a M. Celio Rufo, quello stesso che Cicerone difese nella "Pro Caelio", rappresentando Clodia come una mondana d'alto rango, viziosa e corrotta). Il poeta fece così ritorno nella capitale, sia perché non riusciva a star lontano dalla vita romana, sia per l'ormai insostenibile gelosia. Deciso, infine, ad allontanarsi definitivamente da Roma, per dimenticare le sofferenza e riaffermare il proprio patrimonio, il poeta accompagnò, nel 57, il pretore Caio Memmio in Bitinia, esattamente il dedicatario del "De rerum natura" di Lucrezio. Laggiù, in Asia, il giovane C. entrò in contatto con l'ambiente intellettuale dei paesi d'Oriente; fu probabilmente dopo questo viaggio, dopo essersi recato alla tomba del fratello nella Troade per compiangerlo, che compose i suoi poemi più sofisticati, una volta tornato in patria.
Il ritorno e la morte. C. tornò dal suo viaggio nel 56, e si recò nella villa di Sirmione, dove trascorse gli ultimi due anni della sua vita, consumato fisicamente da un'oscura malattia (mal sottile?) e psichicamente dalla sfortunata esperienza d'amore e dal dolore per la morte del fratello.
Carmen I
Cui dono lepidum novum libellum
arida modo pumice expolitum
Corneli, tibi: namque tu solebas
meas esse aliquid putare nugas
iam tum, cum ausus es unus Italorum
omne aevum tribus explicare cartis
doctis, Iuppiter, et laboriosis.
quare habe tibi quidquid hoc libelli
qualecumque, quod, o patrona virgo,
plus uno maneat perenne saeclo.
+--
A chi posso donare il nuovo grazioso libretto or ora levigato dalla ruvida pomice? A te, Cornelio: e infatti tu eri solito che le mie inezie valessero qualcosa, già da quando osasti, solo degli Italici, esporre tutta la storia in tre libri dotti, o Giove, ed elaborati. Perciò accetta questo libretto, qualuncque sia la sua lunghezza e il suo valore; e questo, o vergine protettrice, possa durare più a lungo di una generazione.
Carmen II
Passer, deliciae meae puellae,
quicum ludere, quem in sinu tenere,
cui primum digitum dare appetenti
et acris solet incitare morsus,
cum desiderio meo nitenti
carum nescio quid lubet iocari
et solaciolum sui doloris,
credo ut tum gravis acquiescat ardor:
tecum ludere sicut ipsa possem
et tristis animi levare curas!
+--
O passero, gioia della mia ragazza, con cui (ella) è solita giocare, che (lei è solita) tener in grembo, a cui lei (è solita) dar (da beccare) la punta del dito a lui che la reclama, e provocarne irose beccate, quando allo splendente oggetto del mio desiderio piace fare per scherzo non so che di dilettevole e di conforto al suo dolore, credo, perché si plachi l'insopportabile bruciare; potessi io giocare con te come fa lei, e sollevare i tristi tormenti dell'animo!
Carmen III
Lugete, o Veneres Cupidinesque,
et quantum est hominum venustiorum:
passer mortuus est meae puellae,
passer, deliciae meae puellae,
quem plus illa oculis suis amabat.
nam mellitus erat suamque norat
ipsam tam bene quam puella matrem,
nec sese a gremio illius movebat,
sed circumsiliens modo huc modo illuc
ad solam dominam usque pipiabat.
qui nunc it per iter tenebricosum
illuc, unde negant redire quemquam.
at vobis male sit, malae tenebrae
Orci, quae omnia bella devoratis:
tam bellum mihi passerem abstulistis
o factum male! o miselle passer!
tua nunc opera meae puellae
flendo turgiduli rubent ocelli.
+--
Piangete, o Veneri e Amorini, quanto vi è di uomini dal cuore assai gentile. É morto il passero della mia fanciulla, il passero, delizia della mia fanciulla, che ella amava più dei propri occhi; infatti era tenero, e conosceva la sua padrona bene come la fanciulla (conosceva) la madre, e non si muoveva dal suo grembo, ma saltellando ora qua ora là fino alla padrona sempre pigolava. Esso ora va per il cammino tenebroso lì da dove negano a chiunque di ritornare. Ma siate maledette, malvage tenebre dell'Orco, che divorate tutto ciò che è grazioso; mi avete portato via un passero tanto grazioso. O disgrazia! O povero passerotto! Ora per colpa tua gli occhi della mia fanciulla sono rossi, gonfi di pianto.
Carmen IV
Phaselus ille, quem videtis, hospites,
ait fuisse navium celerrimus,
neque ullus natantis impetum trabis
nequisse praeterire, sive palmulis
opus foret volare sive linteo.
Et hoc negat minacis hadriatici
negare litus insulasve Cycladas
Rhodumque nobilem horridamque Thraciam
Propontida trucemve Ponticum sinum,
ubi iste post phaselus antea fuit
comata silva; nam Cyrotioin iugo
loquente saepe sibilum edidit coma.
Amastri Pontica et Cytore buxifer,
tibi haec fuisse et esse cognitissima
ait phaselus, ultima ex origine
tuo stetisse dicit in cacumine,
tuo imbuisse palmulas in aequore,
et inde tot per impotentia freta
erum tulisse, laeva sive dextera
vocaret aura, sive utrumque Iuppiter
simul secundus incidisset in pedem;
neque ulla vota litoralibus deis
sibi esse facta, cum veniret a mari
novissimo hunc ad usque limpidum lacum.
Sed haec prius fuere; nunc recondita
senet quiete seque dedicat tibi,
gemelle Castor et gemelle Castoris.
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La barca che vedete, ospiti, dice che fu la più veloce d'ogni nave, e mai slancio di legno navigante le passò avanti, fosse necessario volare col remeggio o colla vela. E dice che non possono negarlo la costiera adriatica malfida e le Cicladi e Rodi celebrata, la selvaggia Propontide di Tracia, il torvo seno del Mar Nero, dove prima di essere nave fu foresta frondosa: là, sul giogo del Citoro, molto parlò la frasca sibilando. O Amastri del Mar Nero, e tu Citoro folto di bossi, a voi fu familiare, dice la nave; a ella sua prima origine fu lassù, in lato alla vostra vetta, poi nelle vostre acque immerse i remi, quindi attraverso tanti mari folli portò il padrone, e i venti la chiamavano da destra a sinistra e Giove Padre batteva l'una e l'altra scotta, poi senza dover fare voti mai agli dei delle rive, lasciò il mare e giunse infine a questo lago chiaro, Tutto questo è un passato. Ora, appartata, riposa e invecchia, e si consacra a voi, a Castore e Polluce, i due Gemelli.
Carmen V
Vivamus mea Lesbia, atque amemus,
rumoresque senum severiorum
omnes unius aestimemus assis!
soles occidere et redire possunt:
nobis cum semel occidit brevis lux,
nox est perpetua una dormienda.
da mi basia mille, deinde centum,
dein mille altera, dein secunda centum,
deinde usque altera mille, deinde centum.
dein, cum milia multa fecerimus,
conturbabimus illa, ne sciamus,
aut ne quis malus invidere possit,
cum tantum sciat esse basiorum.
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Viviamo, mia Lesbia, e amiamo(ci) (alcuni interpretano "facciamo l'amore"), e valutiamo le chiacchiere dei vecchi troppo bacchettoni un soldo appena. I giorni (lett: i soli) possono tramontare e sorgere: (ma) noi, una volta tramontata la giornata della vita, (noi) dobbiamo dormire una sola continua notte. Dammi mille baci, poi cento, quindi altri mille, poi ancora cento, quindi un'altra volta mille, poi cento. (E) dopo, quando ne avremo contati molte migliaia, li rimescoleremo, per non riconoscerli, o perché nessun maligno possa gettare il malocchio, ché sa che tanti posson essere (lett: sono) i baci
Carmen VII
quaeris, quot mihi basiationes
tuae, Lesbia, sint satis superque.
quam magnus numerus Libyssae harenae
lasarpiciferis iacet Cyrenis
oraclum Iovis inter aestuosi
et Batti veteris sacrum sepulcrum;
aut quam sidera multa, cum tacet nox,
furtivos hominum vident amores:
tam te basia multa basiare
vesano satis et super Catullo est,
quae nec pernumerare curiosi
possint nec mala fascinare lingua.
+--
Mi chiedi, Lesbia, quanti tuoi baci siano per me più che abbastanza. quanto grande (è) il numero delle sabbie libiche a Cirene fertile di silfio, tra l'oracolo di Giove fiammeggian e il sacro sepolcro dell'antico Batto, o quanto numerose (sono) le stelle, quando la notte tace, (e) vedono i furtivi amori degli uomini, che tu dia altrettanti numerosi baci è più che abbastanza per il folle Catullo, (tanti) che né i curiosi possano contare né le lingue (possano) gettare il malocchio.
Carmen VIII
Miser Catulle, desinas ineptire,
et quod vides perisse perditum ducas.
Fulsere quondam candidi tibi soles,
cum ventitabas quo puella ducebat
amata nobis quantum amabitur nulla.
Ibi illa multa cum iocosa fiebant,
quae tu volebas nec puella nolebat,
fulsere vere candidi tibi soles.
Nunc iam illa non vult: tu quoque impotens noli,
nec quae fugit sectare, nec miser vive,
sed obstinata mente perfer, obdura.
Vale puella, iam Catullus obdurat,
nec te requiret nec rogabit invitam.
At tu dolebis, cum rogaberis nulla.
Scelesta, vae te, quae tibi manet vita?
quis nunc te adibit? cui videberis bella?
quem nunc amabis? Cuius esse diceris?
quem basiabis? Cui labella mordebis?
At tu, Catulle, destinatus obdura
+--
Povero Catullo, smetti di fare il pazzo, e considera ciò che vedi perduto perduto per sempre. Brillarono un giorno per te splendidi giorni di sole, quando te ne andavi dove la tua ragazza (ti) portava, amata da me quanto non sarà amata nessuna. Allora lì si facevano molti giochi d'amore, che tu volevi e (che) la ragazza non rifiutava. Splendevano davvero per te giorni luminosi. Ora lei non vuole più: e anche tu, che non puoi farci nulla, non volere, e non inseguire colei che fugge, e non vivere miseramente, ma sopporta con mente ferma, resisti. Addio, fanciulla. Catullo ormai resiste, e non ti cercherà, non ti chiederà a te che non vuoi; ma tu sarai addolorata, quando non sarai chiesta da nessuno. Sciagurata, mal per te! Che vita ti rimane? Chi ora si avvicinerà a te? A chi sembrerai bella? Ora chi amerai? Di chi si dirà che tu sia (la ragazza)? Chi bacerai? A chi mordicchierai le labbra? Ma tu, Catullo, risoluto resisti
Carmen IX
Verani, omnibus e meis amicis
antistans mihi milibus trecentis,
venistine domom ad tuos penates
fratresque unanimos anumque matrem?
Venisit. O mihi nuntii beati!
Visam te incolumem audiamque Hiberum
narrantem loca, facta, nationes,
ut mos est tuus applicansque collum
iucundum os oculosque suaviabor?
O quantum est hominum beatiorem,
quid me laetius est beatiusvne?
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Veranio, primo per me fra tutti i miei trecento mila amici (altra interpretazione: "che fra tutti i miei amici per me sei avanti di trecento miglia"), sei tornato a casa dai tuoi Penati e dai fratelli unanimi (nell'affetto per te) e dalla vecchia madre. O notizia per me felice! Ti verrò a vedere incolume, e (ti) sentirò mentre parli dei paesi, delle imprese, dei popoli della spagna, come è tuo solito, e avvicinando a me il tuo collo ti bacerò il viso giocondo e gli occhi. Voi tutti uomini che siete felici, chi fra gli uomini è più felice di me?
Nella culla del nostro passato, io giaccio riverso in una grotta così stretta che ho potuto penetrarvi solo dibattendomi. Là, nella luce danzante di una torcia resinosa, ho tracciato sulle pareti e sulla volta le creature di caccia e le anime della mia gente. Com'è illuminante guardarsi indietro, attraverso un circolo perfetto, e scorgere quell'antica lotta per il momento visibile dell'anima.
Tutto il tempo vibra a quel richiamo: «Eccomi!». Con una mente informata dai giganti dell'arte che sono venuti poi, scruto le impronte delle mani e i fluenti muscoli tracciati sulla roccia col carboncino e le tinte vegetali. Noi siamo ben più che semplici eventi meccanici! E il mio io anticivile chiede: -- Perché non vogliono lasciare la grotta?
-- I Diari rubati. (L'imperatore-dio di Dune - Cap.40 - pag.295)